Cenni storici su San Martino di Castrozza

Poco si può dire, con certezza storica, sull’origine dell’Ospizio e Monastero dei Santi Martino e Giuliano di Castrozza, chiamato anticamente “Castrugium” o “Castrugia”. La tradizione la vorrebbe portare al 1000 al tempo di S. Romualdo e vorrebbe che i suoi religiosi avessero appartenuto alla Regola di S. Benedetto, dei Camaldolesi e dei Cluniacensi .

Cenni SM

Anche se manca ogni prova documentale di tali origini, tuttavia è ammissibile che la sua erezione ascenda al XII secolo, al tempo cioè delle Crociate, quando la società cristiana avvertì il bisogno di pellegrinare in Terra Santa. Questi pellegrinaggi diedero impulso all’erezione degli ospizi alpini che nel XII secolo furono costruiti e affidati alle corporazioni religiose per assistere i viandanti che transitavano dall’occidente all’oriente attraverso le Alpi. È quindi legittimo supporre che anche l’ospizio di Castrozza abbia avuto queste origini che i fondatori ne siano stati i Vescovi di Feltre alla cui giurisdizione la Valle di Primiero è appartenuta fino al 1786, al tempo cioè dell’imperatore Giuseppe II.
Nella chiesa dell’ospizio di Castrozza esisteva una pittura murale che rappresentava un monaco con la barba in abito bianco, come vestivano i monaci benedettini al tempo della loro riforma dopo dimesso l’abito nero; quindi i monaci di Castrozza potrebbero essere posteriori a questa epoca. Lo storiografo Rachini riporta una sentenza del Vescovo Jacopo Casalio di Feltre, secondo la quale i monaci in questione sussistevano già al tempo del pontificato di Benedetto X, eletto nel 1058. Ma sebbene manchi ogni fonte documentale per conoscere lo scopo primo pel quale fu eretto l’ospizio di Castrozza, si deve tuttavia ammettere che lo stesso servisse ad alloggiare e cibare i viandanti che transitavano per le Valli di Fiemme e di Primiero, onde il medesimo porta i pieni caratteri di una istituzione religiosa per l’assistenza ai poveri ed ai pellegrini. Che anticamente fossero sussistiti simili ricoveri alpini, è comprovato da vari documenti. Nella regione Tridentina ne esistevano ad Albiano, Arco, Borgo, Campiglio, Levico, Nago, Nomi, Pontalpino, Romano, S. Tomaso presso Rovereto, San Pellegrino, Senale, Telve, Tonale, Volano.
Dal corpo di fabbrica dell’ospizio di Castrozza si deve arguire che il numero di quei monaci fosse esiguo; si pensa a non più di otto, da altrettanti sedili che esistevano in quella chiesa. Ai monaci presiedeva un capo col nome di Priore, che era assistito da un ministro chiamato anche sindaco, massaro o provveditore. Vi era inoltre del personale rustico, per il servizio dell’ospizio e della pastorizia annessa al convento.
Si legge in vari documenti dell’ospizio che quei monaci contraevano affari colla formula aggiuntiva “pro omnibus Fratibus et Sororibus ipsius locis”. Ciò induce a due versioni: o che l’ospizio sia sorto ad opera di una congregazione laica e poi sia passato in quella religiosa dei Benedettini, o che la fama universalmente goduta da questi ultimi – come avvenne di molti ordini religiosi – abbia portato che persone devote volessero essere ascritte come benefattrici a quel pio ospizio. Si vuole che l’ospizio fosse dotato di beni dell’Imperatore Enrico I, da Enrico re di Boemia e da altri principi.
L ‘ospizio di Castrozza, oltre vasti terreni alpestri consistenti in praterie, alpi, boschi a Castrozza, possedeva beni e diritti livellari, decime in Valle di Primiero, in Fiemme, a Egna in VaI d’ Adige, a Levico, ad Asolo, Castelfranco Veneto, nel territorio di Feltre (Pedavena) e in quello di Treviso e 1’8 agosto 1384 fece acquisto dell’ Alpe Rolle. I monaci di Castrozza spariscono di là verso l’anno 1418 e la storia tace sulle cause della loro partenza, avvenuta sotto il Pontificato di Martino V. Il monastero venne sostituito da un beneficio semplice senza obbligo di cura d’anime, ma cogli obblighi precedenti di ospitalità ai viandanti.
Al nuovo beneficiato che mantenne il titolo di Priore, anche se non aveva più dipendenti, non venne imposto alcun obbligo di dimora in San Martino di Castrozza, potendo farsi sostituire negli obblighi ecclesiastici da un sacerdote. Per il possesso del priorato furono mantenuti gli ordini minori. Gli albori dello sviluppo turistico di S. Martino di Castrozza si ebbero alla fine del 1800 quando avvennero le prime scalate esplorative del gruppo delle Pale da parte di alpinisti inglesi e tedeschi.
Nel 1872 fu iniziata la costruzione dell’Albergo Alpino sull’area adiacente all’antico monastero – ospizio. Fu uno dei primi alberghi d’alta montagna, se non il primo, costruito nel Trentino. Tra il 1880 e i primi del 1900 sorsero altri alberghi quali l’Hotel Dolomiti, il Grand Hotel des Alpes, il Palace Hotel Sass Maor, l’Hotel Cimone, il Colfosco, il S. Martino. Tutti, compreso il vetusto ospizio, furono distrutti dagli austriaci allo scoppio della prima guerra mondiale.
La ricostruzione iniziò negli anni Venti ed uno dopo l’altro, tranne l’Albergo Alpino, risorsero dalle macerie gli altri alberghi già precedentemente esistenti ai quali se ne aggiunsero di nuovi. Solo l’antico ospizio non fu ricostruito. L ‘unico vestigio che ancora rimane integro a ricordo di un’epoca durata nove secoli è il campanile della Chiesa.

Priorato di San Martino di Castrozza

Priorato SM

In illo tempore, quando la Valle era ancora poco abitata, i pendii dei nostri monti coperti da folte foreste, le vie di accesso e di transito molto embrionali, il passeggero che si fosse diretto in Val di Fiemme a piedi o a dorso di mulo, uscito dal bosco di Siror, giungeva in una radura posta alla base dei bestioni dolomitici delle Pale. Si trovava di fronte a un luogo solitario, coperto d’inverno da metri di neve e percorso da branchi di lupi affamati. Da qui fino al Passo di Rolle o a quello del Colbricon, e giù fino all’ospizio di Paneveggio, il viandante non poteva contare che sulle proprie forze: nessuna creatura umana gli si sarebbe fatta incontro, nessuna casa lo avrebbe albergato.
Per sua fortuna, il passeggero, nella radura ove ora sorge l’importante stazione turistica di San Martino di Castrozza, trovava ancora l’ultima casèra costruita dai pastori che in estate vi pascolavano le gregge di pecore e di castrati, o forse i ruderi di qualche ex fortilizio romano (castrum). Intensificandosi sempre di più il passaggio di gente tra Primiero e Fiemme, giunsero sul luogo dei frati (forse) dell’Ordine di San Benedetto, che vi si stabilirono. Costruirono un piccolo convento e una chiesetta e si assunsero quale compito primario quello di assistere i
viandanti e i pellegrini, che erano costretti a transitare in quei luoghi poco ospitali.
Fu così che, su quella radura chiamata allora Castrugia, Castrugium o Castrozza, nome derivante probabilmente dal pascolo dei “castrati” o dal latino “castrum”, sorsero poco a poco il monastero e l’ospizio destinati a diventare famosi non solo a Primiero, ma anche nel Veneto e nel Tirolo.
Non è dato di sapere con precisione la data di costruzione del convento, ma si può ritenere che ciò sia avvenuto verso il mille. Esiste infatti un documento del vescovo feltrino Jacobo Casalio del 1294, nel quale viene fatta menzione di privilegi concessi al convento di Castrozza dai papi Lucio III e Benedetto X. Quest’ultimo fu pontefice dal 1058 al 1060. Da un altro documento del vescovo Gorgia Lusa, del 1335, traspare che la chiesa venne consacrata dal vescovo Filippo fra il 1210 e il 1213, nel giorno di San Michele Arcangelo, e dedicata ai santi Martino e Giuliano.
Compito dei frati era, come si è detto, quello di prestare gratuitamente ogni genere di soccorso alle persone che transitavano, fossero esse ricche o povere “pauperibus et divitibus, nobilibus et ceteris personis volentibus recipere” e precisamente quello di “accogliere i passanti, provvederli di ristoro, di alloggio, di vitto, anche per più giorni, accompagnarli in tempi pericolosi, ricercarli, condurli all’ospizio, curare ammalati, indisposti, sinistrati”. Eguale trattamento, che normalmente poteva protrarsi fino a tre giorni e tre notti, veniva usato anche nei riguardi dei pastori che da Primiero o dalle “basse” salivano d’estate sulle malghe nei dintorni di Castrozza, a pascolare il gregge.
Per compiere queste funzioni i monaci potevano contare su delle entrate in denaro e natura provenienti da elargizioni e da interessi di beni, che i monaci possedevano in abbondanza. “Questi religiosi monaci, dice il Rachini, al tempo che abitavano nel cenobio, tenevano molti animali, cioè pecore, buoi, cavalli e d’altra sorte, come risulta dai catastici di quei tempi, oltreciò possedevano molti beni, decime e montagne nella Valle di Primiero ed ancora diverse possessioni, livelli, decime ed altri effetti nel Lungo Adige, Borgo d’Egna, Valle di Fiemme, Levico e Valsugana, come pure nei territori di Feltre, Trevigi, Asolo e Castel Franco nel distretto Veneto ed allora soggetti agli Imperatori e Principi di Germania, i quali beni furono loro donati parte da Principi e parte da altre persone divote per maggiormente obbligarli alla continuazione delle limosine ed al sovvenimento dei poveri”.
Fra i benefattori di maggior rilievo sono da annoverare Enrico conte del Tirolo e re di Boemia, Leopoldo duca d’Austria, Mainardo conte del Tirolo e di Gorizia e Lodovico margravio di Brandenburgo.

Parte di questi beni vennero comperati dai frati direttamente “pro se et ospitali”. Nei documenti d’acquisto e d’investitura figura qualche volta anche la formula “pro omnibus fratribus et sororibus ipsius loci”. Ciò lascia supporre che a San Martino, oltre al convento dei frati esistessero anche delle congregazioni di laici: uomini e donne. Ne dà conferma un documento citato da don Fontana, che dice: “Ai 13 gennaio 1379 in pieno generale capitolo dell’ospitale e monastero di San Martino, alla presenza di Giovanni de Pachignelli, Giacomo di Pieve, Francesco da Melaia, Giovanni di Faceno, abitanti in Primiero, Marco da Lamon e donna Mabilia sua moglie, non sforzati, ma ispirati da Dio e volendo passare a uno stato migliore e più confacente di vita, si concedono vicendevole licenza di entrare nell’obbedienza dell’ordine di San Martino e offrono le loro persone e i loro beni nelle mani del venerando Padre Priore e Rettore del detto ospitale, che riceve i beni e poi, all’altare, la professione dei due coniugi”.
L ‘ atto più antico si riferisce alla compera di un terzo del monte di Rolle (Mons de Arola) nel 1204. È la prima volta che compare nella storia questo nome, in seguito tanto noto e ripetuto. Quattordici anni dopo il vescovo investiva i frati di un’altra parte del monte, e nel 1284 essi comperavano anche il resto con Castoncella.
Ancora in Primiero, nel 1254, acquistarono Agaon e Lastredolo, nel 1274 un campo a Mezzano, Ancolina, e nel 1349 un’altro campo a Siror, Sorezza. Nella Val di Fiemme comperarono nel 1285 un orto a Pedonda, nel 1287 un terreno pure a Tesero, nel 1303 una chiusura a Egna e un campo a Levenza. Tra gli anni 1328 e 1380 troviamo parecchie compere a Feltre e nel Trevisano.
Altro documento interessante è il testamento di Oliviero, detto Baretta, da Levada di Cornuda, che nel 1294 lasciava eredi della sua sostanza i frati, colla condizione che tutti i frutti venissero distribuiti a poveri e ricchi, nobili o altre persone che volessero accettare quell’elemosina. Non è dunque da stupirsi che in queste condizioni il patrimonio dei frati diventasse ingente e che, oltre al monastero vero e proprio e alla chiesa, dovesse esistere a Castrozza tutta una serie di altri fabbricati: fienili, stalle, depositi di legna e merci, viveri, luoghi per albergare i pellegrini.

Fra i molti privilegi di cui i monaci godevano vi era anche quello di nominare, a decorrere dal 1294, il priore dell’ospizio di Tesero, secondo alcuni, o di Paneveggio, secondo altri, e di essere quasi completamente esonerati dal pagamento di tasse. Dal documento sopra citato del 1294 risulta infatti che l’unico obbligo cui i frati erano sottoposti era quello di versare ogni anno, nel giorno di San Lorenzo, 200 libbre di formaggio di monte alla “caneva” del vescovo di Feltre. “Dicti Frates de Castrossa omni anno solvere debent et solvere tenantur circa Festum Sancti Laurentii duecentas libras casei de Monte in Valle Primierii ad Canipam dicti Domini Episcopi perpetui temporibus omni anno et successoribus suis, solutis dictis duecentis libris casei omni anno dicti Monaci et Fratres debent esse absoluti ad omonibus Collectis, Datiis, Servitiis, Padagis, Gabellis, Contributionibus, Subsidiis”.
I monaci, in numero di otto, erano retti da un priore eletto a vita, assistito da un massaro, sindaco o procuratore.

I priori

Soltanto a partire dal 1222 abbiamo l’elenco dei priori del Monastero dei Santi Martino e Giuliano di Castrugia, ma dalla fondazione in poi il monastero è pacifico che abbia avuto sempre il suo priore o superiore.
1222-1232 Fra Domenico
1232-1232 Fra Martino Vitulo
1233-1260 Fra Giovanni Orne
1261-1279 Fra Ventura
1280-1326 Fra Federico
1326-1335 Fra Melioranza
1335-1338 Fra Bartolomeo
1338-1340 Fra Diodato
1340-1374 Fra Vittore Mantello
1374-1380 Fra Francesco
1380-1382 Fra Marco da Lamon
1382-1411 Fra Biasio da Ferro
1411-1415 Fra Antonio Franzomo

Il silenzio degli antecedenti dà adito a qualche ipotesi. Può essere che la prima origine dell’ospizio, come in altri luoghi, p. es. a Vedana, sia laicale; una congregazione cioè di buoni laici, assistiti da un sacerdote, alle dipendenze del vescovo, e che solo dal 1200 sia passata ai benedettini. Questi avrebbero curato meglio la conservazione degli atti e i nomi delle persone. Comunque sia, anche degli anteriori si dovrebbe pur conoscere qualche cosa, facendo noi del XX secolo, qualche riflessione.
Il fatto doloroso è questo, che tante memorie del passato sparirono, e spariscono anche oggi, definitivamente. Per rimanere entro i confini della nostra Valle, quanti pievani di Primiero conosciamo del 1200? Solo uno. E del 1300? Soltanto tre. Ed è da notare che rimanevano al loro posto un tempo molto più breve di oggi. Dei marzoli, annuali, fino al 1500 sono noti pochissimi; così per i capitani, vicari e cancellieri. E tutti rivestivano cariche per la storia più importanti e più facilmente documentate di quelle di superiori di un minuscolo e sperduto convento. Nessuna meraviglia, dunque, e nessun dubbio sulla storicità dell’istituzione, sia laicale, sia religiosa, se del primo periodo non conosciamo i superiori.

Soppressione del convento

La vita di quei monaci si svolgeva attiva e benefica con congrue possibilità e validi soccorsi, quando in un triste giorno dell’anno 1418 una sentenza mortale colpì la comunità. E non proveniva da usurpatori rapaci e prepotenti, come in troppi casi registra la storia, ma dalla suprema autorità della Chiesa, in seguito ad una decisione presa al Concilio di Costanza. Al suo posto subentrava un priorato secolare e chi ne era investito, coadiuvato da altre persone, doveva continuare le tradizioni e adempiere agli obblighi originari del monastero.
Non sono note le ragioni che portarono a questo grave provvedimento. Gli storici se ne occuparono, ma la parola definitiva non potrà essere detta fino a quando qualcuno non potrà consultare gli atti di quel Concilio, supposto che ciò sia possibile. Lo storico feltrino don Antonio Pellin accenna giustamente alla quasi certezza che nel 1447 la comunità religiosa sopravviveva ancora, deducendo questo da un documento dell’archivio vescovi le. In una investitura di feudi del 1447 si parla (parecchie volte), dei frutti decimali della villa di Tonadico indivisi coi frati o monaci dell’ospitale di San Martino e più volte anche l’anno seguente in una scrittura si nominano i frati.
Dunque la trasformazione non abolì la comunità, pare che essa abbia continuato ancora con personalità giuridica, forse delegata ad un priore secolare investito. Non si andrà lontano dal vero ammettendo che nei primi tempi egli sia stato una specie di commissario e che solo più tardi, la comunità religiosa si sia diradata e sciolta.

Il priorato secolare

La trasformazione dell’Ospitale non fu un semplice cambio della guardia, che non toccava l’istituzione: allora sarebbe stato lo stesso che lasciar tutto come prima. Rimasti intatti gli obblighi di fondazione, che in parte possono parere elastici, subentrò un nuovo orientamento nella devoluzione delle entrate: prima si riversavano sulla comunità e sulle persone assistite, ora su una sola persona, che ad arbitrio suo determinerà il dovuto per certi oneri e si godrà pacificamente il resto. Fu così aperta la porta e, trattandosi di un buon affare, non tardarono a farsi avanti i pretendenti. La Santa Sede nominò i priori Giovanni Cavalli ( 1420-1428) e Teodorico Bordesco (1428-1458).
Il duca d’Austria, alla morte di Bordesco, fece dare dal vicecapitano di Telvana il possesso, in suo nome, a Giorgio Hauman, priore dell’ospitale di S. Egidio a Ospedaletto, che nel 1482 rinunciava in mano di Baldassare di Welsperg. Questi elesse subito Stefano Kolb di Passavia. La parte pontificia subiva, attendendo l’occasione propizia. La offrì lo stesso Kolb colla sua condotta, meritevole che fosse dal vescovo di Padova, delegato da Roma, deposto e allontanato nel 1495. La Santa Sede nominò allora Giacomo Bagnolo. Presto però, forse sotto pressione, vi rinunciò e i Welsperg lo sostituirono con Matteo Panghener o Pangartner, canonico di Trento. Sorse allora una contesa tra il rinunciante e i Welsperg, che pensarono bene di mettere al sicuro il beneficio col farsi aggiudicare, nel 1499, il diritto di patronato e di presentazione dal vescovo di Feltre Andrea Trevisano, fornendo un voluminoso incartamento di testimonianze, di privilegi ducali e reali, di ragioni, di donazioni.
La decisione riconobbe ai Welsperg il diritto contestato, ma essi non si accontentarono di una autorevole sentenza vescovile. Essi seppero ottenere anche dal papa Leone X, ne1 1513, la conferma del diritto pochi anni prima riconosciuto, pareva così che ogni dissidio fosse tolto.
Nello stesso anno il Panghener restituì il beneficio nelle mani dei Welsperg, che senza contraddizione elessero in seguito Michele Briosio, canonico di Trento, Filippo di Tono, Zaccaria Mohelin di Augusta e Sigismondo di Tono, nel 1520. Ma contemporaneamente a quest’ultima nomina, il papa, senza che se ne conosca il motivo, fece altra nomina nella persona di Lorenzo de Bergomenis, canonico di Mantova.
Le controversie divamparono di nuovo: tristi e non rari esempi in quel tempo. Il di Tono fu sconfessato da Roma, ma non si mosse; venne quindi minacciata la scomunica all’arciduca Ferdinando. Questi spiegò le sue ragioni e il rincrescimento al pontefice Leone X, in una lettera deferente nella forma ma ferma nelle pretese. Qualche tempo dopo le cose si aggiustarono coll’obbligo di pagare al Bergomenis 102 fiorini d’oro annui; dopo la sua morte il seniore della famiglia Welsperg esercitò sempre pacificamente il diritto di patronato.
In tutte queste aspirazioni e maneggi per raggiungerle e conservarle, possiamo ben ritenere che non l’onore di Dio e il vantaggio dei viandanti, come nell’epoca benedettina, fu il movente, ma l’interesse privato e familiare. E ora che la via era finalmente sgombra da ostacoli, si affacciava per gli ecclesiastici del casato una sicura fonte di lucro e anche di maggior prestigio nella Valle. Nel 1526, dopo la rinuncia di Sigismondo, veniva presentato Rodolfo, figlio di Giorgio, il primo di una decina di priori Welsperg.
La vita del priorato seguì il solito ritmo, diretta da superiori lontani per mezzo di vicari quasi sempre residenti, senza contrasti, avendo cura del passaggio dei viandanti e degli interessi del beneficio. Anche i primierotti si affezionarono a quel luogo e, oltre ai numerosi occupati nelle aziende priorali, si avviò l’usanza di qualche notevole intervento, a volte con processioni alla chiesa di San Martino, specialmente nella seconda a terza domenica di giugno e nella sua festa, l’undici di novembre. In quelle occasioni si distribuiva una elemosina di fava cotta, di pane e latte a tutti i poveri arrivati lassù; più tardi la consuetudine si estese a tutti i partecipanti, che raggiungevano anche le duemila persone, con l’offerta di pranzo e cena. La buona assistenza alimentava il sentimento religioso e la fraternità cristiana.
In questo lasso di tempo si può notare qualche fatto meritevole di un cenno: il passaggio di Carlo di Lussemburgo, nel 1337, con un esercito che sconvolse la quiete del luogo e delle persone; apparizioni di immagini sulle pareti della chiesa, che richiamarono molto popolo in due processioni nel 1630; le trattative del conte priore Francesco Antonio de Welsperg per cedere i beni del priorato ai figli di san Brunone (certosini}, che vi avrebbero eretta una certosa, nel 1721.
In un contratto del 5 maggio 1650, il capitano della Valle Baldassare Poppi dava in locazione, nella stua vecchia superiore del priorato, a Giovanni Antonio Lucian di Tonadico il nucleo dei beni al centro, compreso il prato di Arole. L’atto ripete antiche condizioni, ma si notano pure le impronte del saggio capitano che fra il resto prescrive: “Passando d’ivi passeggeri o pellegrini che adimandino elemosina per l’amore di Dio o che volessero alloggiare, gli sarà dato pane, formaggio o minestra e anco alloggio conforme alla conditione delle persone, trattando essi poveri con ogni amorevolezza et carità. Et se da esso signor locatore sarà lasciato ivi pane, farina o altra roba da dispensare ai poveri, usar voglia ogni fedeltà nel distribuirla, et occorrendo che passasse qualche povero che per agiuto havesse bisogno d’una trinca di vino, possi darglielo, et similmente passando o transitando qualche infermo foresto o povero, l’accettarà facendolo governare diligentemente con carne, polli et conforme il bisogno, nel qual caso avviserà alfine si possi anco soministrare quanto fosse necessario per la salute di tal povero infermo”. Alla fine del contratto aggiunge ancora: “Che non permetti che in detto luocho et priorato si suoni, balli o canti o far simili chiassi o insolenze, ma viver nel santo timor di Dio con quelli modi et honorevolezza, che si richiede, il che dover osservare sotto pena della dessolutione del presente contratto”.

 

Nel 1750 il rendiconto del priorato era il seguente:
Frumento staia 169.1 a lire 7 lire 1184.15
Sorgo staia 1057.= a lire 4.15 lire 5020.15
segala staia 88.= a lire 4.15 lire 418
Fave staia 74.3 a lire 5.= lire 373.15
Orzo I staia 54.= a lire 4.= lire 216.=
Avena staia 9.= a lire 2.5 lire 20.05
Fieno passi 58 quarelli 6 a lire 12 = 14733.18
rendita trevisana contanti 280
rendita feltrina contanti 212
rendita di Fiemme contanti 250
Formaggio pecorino libbre 120 a lire 0.10 60
affitto malghe Rolle, Ces, Fosse. 1692
affitto Colbricon, Valcigolera,
Prato della Chiesa e delle Nasse 800
affitto Prato Paneveggio 55
affitto Livelli 254
Entrate varie 2604.16
Totale entrate lire 14171.84
Totale spese lire 9218.15
Utile netto per il 1750 lire 4953.69

 

Da un atto anteriore al 1781, risulta che il priorato doveva spendere annualmente 200 fiorini per il mantenimento di un sacerdote obbligato a celebrare la messa nella chiesa di Castrozza tutte le domeniche e feste; 34 fiorini e 17 soldi per la fornitura dei paramenti sacri, candele, olio e vino; 80 fiorini per le prestazioni in vitto e alloggio, come pure la legna per riscaldare i passanti, di qualunque ceto fossero; 171 fiorini per il mantenimento di uno ospizio che albergasse i viandanti, chincaglierie da cucina e spese in salvataggi a causa di cattivo tempo; 10 fiorini per il mantenimento di circa 2 km di strada a monte dell’ospizio, verso il Passo di Rolle, e a valle dello stesso, verso il ponte di Val di Roda; 50 fiorini per il mantenimento della chiesa e degli altri edifici del priorato. Dal 1781 furono versati annualmente 90 fiorini in denaro e 152 staia di grano per il mantenimento di nove maestri e maestre delle scuole di Primiero; 22 fiorini per concedere premi agli scolari e 1 fiorino per il sagrestano della parrocchia.
L’andamento normale del priorato ed addirittura la sua esistenza corsero un serio pericolo, quando Napoleone incamerò i beni ecclesiastici del Regno d’Italia, con decreto del 25 aprile 1810. La Provvidenza questa volta fu propizia e San Martino poté essere esonerato da quel provvedimento, perché giudicato di patronato privato. Però, anche dimostrando questo, il priorato dava segni di sgretolamento. Alla morte del conte priore Giuseppe Welsperg, nel dicembre 1814, una grossa fetta dovette essere versata al fisco e il rimanente passò agli eredi.
Le mutate condizioni politiche e il governo austriaco, più equilibrato, fecero amministrare il beneficio al decano di Primiero don Giovanni Battista Braito, che nel 1832 lo restituì alla sua antica destinazione, fissandone gli obblighi nel 1849, in un atto riconosciuto e accettato dall’autorità ecclesiastica e civile. Sostanzialmente le imposizioni corrispondono alle antiche con qualche elargizione più opportuna all’ospedale, a scuole, a chiese, a sagrestani ecc.
Si apriva così l’epoca più a noi vicina, in cui la consistenza patrimoniale segnò qualche diminuzione, per pagamenti fiscali, per vendite o affrancazioni. Restò il nucleo centrale di beni e diritti in Primiero.
Assistiamo invece a una novità nella persona dei priori. Mentre prima questi furono quasi tutti sacerdoti, o comunque ecclesiastici, dal 1832 al 1897 ebbero investitura dei tonsurati che vivevano nello stato laicale. Da allora, subentrò più rigida l’osservanza della disciplina ecclesiastica e a soli sacerdoti fu conferito il beneficio.

I PRIORI DI CASA WELSPERG DAL 1526

I Rodolfo figlio di Giorgio Welsperg.
II Giorgio figlio di Cristoforo Barone di Welsperg.
III Guglielmo figlio di Cristoforo Welsperg. Principe Vescovo di Bressanone.
IV Filippo Ferdinando figliò di Sigismondo IV Welsperg Canonico di Salisburgo, Trento ed Augusta.
V Carlo Anibale di Sigismondo Wolfango Welsperg, Canonico di Bressanone.
VI Ferdinando Carlo di Marco Sigismondo Welsperg, Canonico di Bressandone.
VII Federigo Bonaventura di Giorgio Bonaventura Welsperg, Conte.
VIII Gian Francesco Antonio di Giorgio Bonaventura Welsperg, Canonico di Bressanone.
IX Sigismondo Wolfango di Cristoforo Sigismondo Welsperg, Canonico di Trento.
X Giuseppe di Giuseppe Ignazio Conte di Welsperg, Canonico e Luogotenente di Passavia.

Struttura di monastero e ospizio

Nella seconda metà del secolo scorso l’antico caseggiato risentiva della sua longevità e lo stato di conservazione era tale da non invogliare nessuno a fermarsi oltre il necessario. Ne dà conferma un rapporto steso nel 1852 per interessamento del Principe Vescovo di Trento. Da questo risulta che il vecchio ospizio era un fabbricato a due piani, che si estendeva in direzione nord-sud sulla riva destra del rio Pezgaiart.
L’ingresso dell’ospizio era dalla parte del ponte. A pianterreno il fabbricato (vedi pianta) era attraversato in direzione est-ovest da un androne, che serviva al passaggio dei pedoni e degli animali. Da una porta a sesto acuto, aperta nel mezzo della parete meridionale, il passeggero perveniva in un grande locale detto “cosinazza” (b), destinato ai viandanti poveri. Da qui si passava nei locali per gli ospiti a pagamento, composti d’una cucina munita di “ritonda” e dispensa (c) e di due “stue” rivolte a mezzogiorno. Una di esse (d), serviva da locale d’osteria e dall’altra (e) si passava in una terza stanza (f), completamente buia, o si scendeva con scala interna nella cantina.

 

Pianta Chiesa SM

 

Un’altra porta a sesto acuto, praticata nella parete nord dell’androne, metteva in un vestibolo (g), da cui si accedeva a tre vasti locali (h, i, k,) posti uno in seguito all’altro nel pianterreno dell’edificio adiacente all’ospizio, che costituiva l’antico monastero. Questi vani servivano per dormitorio ai viandanti poveri. Su questo piano esistevano a ponente altri vasti locali (m, n) con ingresso dalla piazza, posta dietro all’ospizio, che serviva da stalla e abitazione dei pastori.
L’abitazione del priore o del vice priore si trovava al primo piano del monastero e consisteva in una camera, cucina e cameretta per l’inserviente. Il rapporto dice che aveva porte e finestre vecchie e sconnesse il pavimento era fatto di semplici assi, senza avvolto. Sopra esistevano altri due piani con camere e soffitta, ma tutto in pessimo stato di conservazione.

Apparizioni a San Martino

Si tratta d’un avvenimento che destò molto rumore e mise in moto la valle, giudicato prodigioso, tanto che l’autorità ecclesiastica diocesana ne fu debitamente informata e dalla relazione di quell’archivio (Vol. 134, pag. 92) veniamo ad apprenderlo.
Ebbe come sede la vecchia chiesetta di San Martino isolata in mezzo a quell’amena prateria, officiata da un vicepriore, allora D. Giovanni Guarienti da Rallo ( 1624-1640), e frequentata in inverno dai pochissimi, in estate da più numerosi abitanti, falciatori e mandriani. Non si conosce che quel luogo solitario abbia altre volte fatto parlare di sé per simili fenomeni, solo nel 1630 attirò l’interesse e la curiosità di molti con pubbliche, serie manifestazioni religiose e visite devote. Ecco il fatto.
Il pievano D. Bortolameo Tedeschi da Vezzano (1618-1637) si presentava il 19 luglio 1630 dinanzi al cancelliere vescovile di Feltre D. Lorenzo Salce e, ricevuto il giuramento di dire la verità, faceva una chiara esposizione, che noi dobbiamo seguire con attenzione alla particolarità per ricostruire il fatto e l’ambiente.
“Già molti giorni, che non mi ricordo il giorno preciso, venero a ritrovarmi nella mia canonica due servi del M. R. Sr. Vice Priore di S. Martino di Castrozza et mi riferirono che sopra il muro della porta della sacristia di detta chiesa havevano veduto più volte, in diverso tempo, una figura del s.mo Sudario con due bellissimi angeli, che tenivano la s.ma Sindone et di poi il tutto tornava nel suo pristino stato di prima, che non si vedeva cosa alcuna. Del che io restato meravigliato proposi d’andar personalmente al detto luoco per osservar s’io poteva vedere dette figure, et mentre per legittimi impedimenti differii questa mia andata, il R.D. Cristoforo Tisoto primissario di Primiero fu da un ser Giacomo de Luca agente del sig. Vice Priore condotto al priorato di S. Martino et essendo esso Reverendo gionto al detto luoco insieme con il compagno, si trasferì nella chiesa per osservare, il luogo dove fu detto essere apparse le predette figure et finalmente alle 23, cioè un’hora avanti notte in circa, vide il predetto s.r primissario essere apparse le figure, laonde andò subito a ritrovare il s.r Giacomo agente et lo condusse in chiesa, dove anch’egli vide le medesime immagini et per certificarsi meglio della cosa posero sopra una pertica una candela accesa et l’accostarono vicina al luoco et videro ambidue le predette figure come se all’hora all’hora fossero state dipinte da mano di celeberrimo artefice, et di poi la mattina seguente andarono ambedue i sodetti alla chiesa et trovarono che non si vedeva cosa alcuna, ma il tutto tornato nel pristino stato. Così li predetti mi riferirono come ho deposto”.
“Laonde, prestando io fede alla predetta relatione, convocai li marzoli over sindici della comunità di Primiero et li esortai ad avvisare li suoi popoli per ordinare una solenne processione per andare a visitare detta chiesa, et così in essecutione della mia proposta fu convocata et la domenica che fu sotto li 16 di giugno p.p. andassimo a visitare detta chiesa, ove arrivati non vedessimo cosa alcuna in materia delle predette figure et da me ivi celebrata la Messa, esortai con ogni spirito il popolo presente a pregare divotamente nostro Signore a farci degni di vedere le figure come già era stato divulgato esser apparse; perciò a poco a poco, in breve tempo, alla presenza di molta parte del popolo si videro esser apparse le medesime figure con stupore et meraviglia di tutti li astanti. Per il che, sentito da quelli di fora il miracolo evidente, subito si riempì la chiesa di popolo, il quale vide le medesime figure con stupore et meraviglia di tutti li astanti. Per il che, sentito da quelli di fora il miracolo evidente, subito si riempì la chiesa di popolo, il quale vide le medesime figure del sudario et angeli; anzi da molti fu osservato esser apparso a man sinistra un Christo in Croce, che per avanti appena si vedeva il vestigio in parte di croce, ma ciò da me non fu osservato. Et l’apparitione di queste figure perseverano per il spatio di hore tre in circa, et di poi avanti la nostra partenza di tutto era tornato nel suo pristino stato in modo che si poteva vedere qualche particella et segno del capo di esso s.mo Sudario”.
“Ma dopo, spargendosi voce per tutto il luoco di Primiero, che le medesime figure da diverse persone erano ancora state vedute, convocai di nuovo li sindici et li esposi, che sotto questi prodigii stava nascosto qualche gran mistero et che però era bene ordinare novamente un’altra processione, et concluso fra di noi, io ammonii il mio popolo a disporsi alle confessioni et alle S. Comunioni per far una solenne processione alla chiesa di S. Martino per occasione dell’apparitione delle immagini, che molte volte si lasciavano vedere”.
Molti s’accostarono ai Sacramenti e la processione si mosse la domenica 30 giugno per la vecchia strada del “logo”. Il pievano fece la solita esortazione, “et così, mentre si diceva la Messa, le figure apparvero bellissime sopra il muro, più di prima et furono da noi sacerdoti cantate le litanie di B. V. et il Te Deum, et alla presenza di tutto il popolo si videro distintamente il Sudario, li due angeli, il Christo in croce, le quali figure tutte apparivano bellissime, come dipinte da poco da celeberrimo pittore. Anzi di più s’è veduta bellissima una figura di San Giov. Battista, del quale per avanti solo si vedeva qualche vestigio e l’effigie di S. Barbara bellissima, come le altre figure, che al presente anco si vede assai meno bella. Et nell’istesso tempo di questa ultima processione quel che rese maggior meraviglia et stupore, tutte le figure sudavano acqua, che si vedeva scorrere in evidenti rivoli per il muro”.
“Laonde io feci appoggiar una scala et me ne salii sopra con un torzo acceso et vidi distintamente tutte queste figure bellissime, anzi di più osservai, come da tutto il popolo è anco stato osservato, una immagine della B. V ., la quale ordinariamente si vede mediocremente con due macchie di calcina sopra la faccia et all’hora era purgatissima et bellissima senza il minimo neo di macchia”.

Dopo circa tre ore, prima che la processione ripartisse, tutto era tornato “nel suo pristino stato”. E il pievano conchiuse: “Ciò è quanto che de visu et auditu io ho veduto con li propri occhi et sentito da altri, come si potrà prendere informatione del tutto”.
Il 22 giugno anche l’agente Giac de Luca fece la sua deposizione su quanto la sera del 31 maggio aveva osservato alla presenza del primissario Tisoti, cioè “il Sudario che si trovava dipinto sopra il muro mutarsi di colore, imperoche essendo nel muro palido et per vecchiezza d’essere stato dipinto si dura fatica a vederlo”, così come le altre figure, “per essere molto tempo che sono state dipinte”, divenne bellissimo come appena dipinto e gli angeli di colore rosso. Il giorno seguente tutto ritornò allo stato normale.
Ebbe una seconda, identica visione il 16 giugno insieme con “circa 600 huomini venuti in processione”.
Per tentarne una qualsiasi spiegazione dobbiamo fissare due fatti, ricavandoli dall’unico documento pubblicato.
l) Le pitture esistevano sulla parete, ma così sbiadite che di certe nulla si poteva più scorgere, di altre qualche incerto rimasuglio. Non si vedeva cosa alcuna, di un Crocefisso appena si vedeva il vestigio in parte di croce… si poteva vedere qualche particella et segno del capo del Sudario… al presente si vede assai meno bella… ordinariamente si vede mediocremente. Gic. de Luca depone: il sudario, che si ritrova dipinto sopra il muro, si dura fatica a vederlo e così le altre pitture per essere molto tempo che sono state dipinte.
2) Non erano coperte d’intonaco, come afferma anche Ant. Racchini nel 1723 di altre nella medesima chiesa. Li monaci fecero dipingere (come si vede ancora di presente) l’effigie dei Fondatori ecc. E la macchia di calcina sul volto d’una figura ci assicura che sulle rimanenti non c’era.
Che causa possiamo dare noi al rivivere di questi colori, come se un distinto pittore li avesse allora stesi sul muro? In simili casi siamo inclinati a trovare un forte appoggio nella suggestione della folla. Si desidera vivamente di vedere; la fantasia degli uni riscalda quella degli altri e… tutti vedono.
Nulla di questo. I sacerdoti, i sindaci e molti del popolo sono equilibrati e non sentimentali. Appena arrivati nulla vedono e quando le figure si manifestano, nessuno fa atti da esaltato, vi assistono calmi e, ritenendo quella una grazia, pregano. Il pievano, senza fanatismi, volge la circostanza al bene spirituale e tutto in forma nobile, direi austera. E come la fantasia non crea, così non prolunga, come sogliono le teste calde e allucinate. Dopo tre ore la visione sparisce per tutti ed essi discendono a valle.
Del resto molti la scorgono alla spicciolata, non prevenuti, quando la suggestione di una massa è assente.

Fonte: Don Stefano Fontana – 50 anni di Voci di Primiero

La chiesa di San Martino di Castrozza

La-Chiesa SM

L ‘unico edificio che poté sfuggire all’incendio di San Martino del 25 maggio 1915 fu la chiesa. Sia chiaro che non è però quella del tempo dei frati e dell’ ospizio dei Santi Martino e Giuliano. Questa venne barbaramente demolita e ricostruita verso la fine del secolo scorso in uno stile che fa a pugni con quello dell’ abside antichissima e del campanile, fortunatamente rimasti allo stato più o meno primitivo.

Il campanile di stile romanico, sembra sfidare i secoli al pari delle Pale che si ergono a breve distanza. Ha su due piani delle graziose bifore ad arco rotondo sovrapposte e il tetto a piramide. Alla base doveva anticamente poggiare su quattro pilastri d’angolo. Le tracce dei bordi dei muri di riempimento fra pilastro e pilastro sono ancora visibili dall’ esterno sulla parete ovest e, internamente, sulle altre pareti. Delle due vecchie campane, che per tanti secoli avevano suonato nei giorni e notti di bufera per segnalare ai viandanti la posizione del convento, non è rimasta traccia. Irrispettosi della loro antichità, gli stessi che pochi anni prima avevano, senza necessità, distrutta la vecchia chiesa, gettarono le due campane nel forno fusorio.

La chiesa era stata consacrata il 29 settembre di un anno imprecisato, giorno dedicato a S. Michele Arcangelo, dal vescovo Filippo (1209-1225). Oltre all’altare maggiore, nel 1640 ne venne costruito un secondo dedicato a S. Antonio di Padova. L’abside, così come è rimasta, presenta sezione semicircolare e, all’esterno, un dipinto di monaco e il tradizionale San Cristoforo con il bambino sulle spalle. L ‘interno era stato decorato e, pare, con gusto artistico, come si può capire dalle apparizioni del 1630. C’erano dei dipinti raffiguranti Cristo nell’orto degli ulivi, San Giovanni Battista e San Gerolamo, nel mezzo dell’ abside una tela di San Martino.

La chiesa viene ricordata in un primo atto nel 1288, e in un secondo nel 1335; in quest’ultimo, col vescovo di Feltre Gorgia, otto vescovi da Avignone concedono 40 giorni d’indulgenza, in varie festività dell’anno, a chi assiste a funzioni nella chiesa del monastero o compie opere caritative in suo favore.
La chiesa aveva una navata ad arco e conteneva nel mezzo un monumento in cui venivano sepolti i monaci. Le loro ossa, più tardi venivano rimosse e poste nel circostante cimitero in una piccola costruzione munita di porta e pila dell’ acqua santa. Nel fondo della chiesa esistevano ancora nel 1723 otto antichissime sedie di legno, che dovevano servire da coro a quei frati.
Allora, la chiesa, spiccava tra il verde dei boschi e dei prati, al cospetto delle meravigliose Pale di San Martino, come offertorio, il «levavi oculos meos in montes unde veniet auxilium mihi». Oggi rimane quasi soffocata tra le grandezze della modernità, ma la parola di verità resta ancora la sua, come nove secoli fa, anche se il mondo stordito da altri frastuoni fatica ad ascoltarla.

 

Priori

1803 Giuseppe Rech da Feltre
1833 Antonio Comes ab Arsio chierico tonsurato res. a Trento
1834 D. Felice Eques de Pach di Oeniponte
1856-1859 Norberto Comes de Sarnthein di Fonzaso
Diocesi di Padova -Chierico Tonsurato
1859-1877 D. Enrico Comes de We1sberg di Primiero chierico tonsurato
1898 D. Rodolfo Mels = Colloredo Comes di Giesshubi (Vindobonen)
1925-1954 D. Pietro Grossi da Pozza, priore fino alla morte il 21 ottobre 1954
1957 D. Iginio Rogger da Levico

I Vice Priore pro tempore di San Martino di Castrozza

1624 – 1640 Don Giovanni Guarienti da Rallo
1646 – 1664 Don Francesco Simoni da Canale
1664-1666 Don Domenico Fontana da Siror
1675-1686 Don Giovanni Battista Jerli da Fiera
1686-1695 Don Giuseppe Antonio Leporini da Fiera
1695-1698 Don Giovanni Dellagiacoma da Predazzo
1698-1701 Don Giovanni Zanona da Pieve .
1701 Don Paolo Antonio Scopoli da Tonadico
1701-1708 Don Cristoforo Ben da Fiera
1708-1709 Don Giovanni Kinspergher da Fiera
1712-1714 Don Giovanni Battista Meneghetti da Fiera
1717-1721 Don Giovanni Andrea Longo da Siror
1723-1729 Don Giacomo de Stefanis da Cainari
1753-1760 Don Martino Brigadoi da S. Martino
1770-1784 Don Paolo Francesco Antonio Pastorini da Fiera
1784-1786 Don Pietro Antonio D’ Arrigo da Transacqua
1812 Don Vittore Bond da Mezzano
1819-1828 Don Angelo Grandi da Mezzano
1828-1830 Don Luigi Fonzasio da Fiera
1833 Don Bartolomeo Melzani di Bagolino
1834-1836 Don Domenico Egger da Fiera
1836-1844 Don Francesco Broch da Sagron
1844-1846 Don Giovanni Battista Dorigato da Castel Tesino
1847-1875 Don Luigi Egger da Fiera
1875-1883 Don Cirillo Broch -Salvadori da Sagron
1883-1907 Don Carlo Giacomelli da Predazzo
1907-1913 Don Giovanni Battista Boso da Capriana
1913-1938 Don Michele Longo Da Siror
1938 Don Giovanni Rattin da Prade
1939-1951 Don Giuseppe Morandini da Predazzo

1951-1957 Don Mario Micheloni da Levico parroco dal primo luglio 1954.
1957-1968 Don Martino Delugan da Tesero
1968-1977 Don Guido Corradini da Rallo .
1977-1984 Don Paolo Baldessari da Albiano .
1984 – 2014 Don Giuseppe Lucian da Tonadico

2014 don Giuseppe Da Pra da Lozzo di Cadore

 

Fonte : Don Stefano Fontana